Intervista a Laura Curino: “L’Italia che chiude le frontiere è un Paese schizoide”

Laura Curino: «L’Italia che chiude le frontiere è un Paese schizoide»

Parla l’attrice coinvolta in un’iniziativa degli Uffizi, “Fabbriche di storie”: 12 dipinti raccontati da persone venute da altre terre e da operatori museali

 

di Stefano Miliani

«Nei momenti di recessione la prima reazione è di chiusura. Prima o poi deve arrivare la reazione di apertura, altrimenti si implode, ci si secca. Siamo un Paese schizoide: da un lato chiude le frontiere e alle esperienze con persone da luoghi diversi, dall’altro coltiva il mito del turismo che, insieme al mito del cibo, ci sta avvelenando il fegato, pensiamo solo alle grandi navi che entrano a Venezia». Laura Curino, una delle attrici, autrici e narratrici di maggior spessore sui palcoscenici italiani, riflette sull’oggi in un’intervista scaturita da un’iniziativa: “Fabbriche di storie”, agli Uffizi.

Per il museo fiorentino l’artista piemontese interpreta una narrazione di Zeinab Kabil, egiziana venuta in Italia quando aveva 25 anni che ha scritto un suo testo-racconto sull’Adorazione dei Magi dipinta nel 1423 da Gentile da Fabriano e conservata nella collezione fondata dai Medici.
Simona Bodo e Maria Grazia Panigada, direttrice artistica del Teatro Donizetti di Bergamo, con l’Area Mediazione Culturale e Accessibilità delle Gallerie e per volontà del direttore Eike Schmidt hanno creato un progetto speciale: “Fabbriche di storie” appunto. Tredici persone (in un caso sono in coppia), alcune originarie da Paesi come il Perù, la Cina o l’Iran e residenti in Italia, oppure operatori museali, raccontano dodici dipinti da Masaccio a Giovanni Bellini fino a Botticelli, intrecciandoli alle proprie esperienze di vita. Ogni racconto può essere ascoltato dal sito degli Uffizi (qui il linko tramite app come Spotify, a casa o al museo con auricolari sul proprio smartphone o tablet, ed esiste in tre versioni: due in italiano, una breve e una integrale, con attori come Marco Baliani o Giulia Lazzarini che hanno prestato la voce a titolo volontario, e un’altra versione nella lingua di chi ha scritto il testo: arabo, farsi, mandarino, francese e spagnolo. Laura Curino è una delle interpreti.

Curino, perché ha accettato questa proposta?
La prima ragione è che faccio la narratrice e i progetti di narrazione mi interessano. Poi il rapporto con le opere d’arte è sempre stato forte per me e chi avvicina l’arte alle persone ha un grandissimo valore. Mi sono avvicinata all’arte grazie a Gabriele Vacis e ai miei compagni del Teatro Settimo e ora non concepisco l’esistenza se non con chi reca forme che siano pitture, sculture o architetture o architettura narrativa. Ne è nato un amore sconfinato.

La seconda ragione?
Conosco Maria Grazia Panigada, direttrice artistica del Teatro Donizetti di Bergamo. Quando me lo ha proposto avevo una fiducia preconcetta.

In più racconti è presente l’elemento dell’immigrazione. Zeinab Kabil parla anche del suo smarrimento quando è arrivata in Italia dall’Egitto.
Maria Grazia Panigada mi mostrò dei video su un percorso in fieri alla Pinacoteca di Brera, a Milano. Mi colpì una donna bosniaca che commentava un quadro a cui non mi sarei mai avvicinata, la Pala di San Domenico del Savoldo (1524-26, ndr): quattro personaggi guardano con smarrimento il cielo. Quella donna raccontava la mattina in cui si svegliarono in guerra, il senso di rapimento e abbandono, lo sconcerto, è quello del quadro. Allora ho capito con chiarezza quale lavoro stavamo facendo. Il testo della signora egiziana mi è arrivato finito e mi è piaciuto molto.

Non sarebbe bene provare anche noi quel senso di smarrimento, almeno nel viaggiare? L’Italia sta chiudendo le porte e si sta chiudendo.
Sono d’accordo. Il regalo migliore ai nostri ragazzi sarebbe un biglietto internazionale come quelli che permisero a molti di noi di andare in giro senza troppi commenti per l’Europa. Ho amiche affrante perché il figlio ha trovato lavoro in Toscana o lontano, ma ci sono fasi della vita. Non si può peregrinare sempre, se non si hanno molti soldi, però avere l’occasione di farlo qualche volta, specie da giovani, fa bene.

Lei come attrice “peregrina” sempre.
Da bambina volevo fare o la giornalista o l’attrice perché erano le due possibilità di scappare, non volevo rimanere ferma. Mio padre lavorava in Fiat, per cui doveva stare fermo. Per viaggio intendo l’immersione in altri mondi, sia fisici sia come percorso intellettuale, per mettersi in relazione con altri modi di vedere la vita.

Prima confrontava l’atteggiamento verso il turismo riguardo alla chiusura del Paese.
Si vuole un turismo di qualità che vuol dire volere solo i ricchi, che poi trattiamo con conti mastodontici al ristorante. La chiusura del paese non vuol dire solo chiudere ai poveri del mondo, è chiusura, è disseccamento e c’è poco da fare la mitologia del turismo, se si ha l’abitudine di trattar male, si trattano male tutti.

In questo periodo lei è stata in scena a Catania con il suo spettacolo “Scintille”, sulle 146 operaie che morirono nell’incendio di una fabbrica a New York nel 1911. Molte erano italiane. Il nostro Paese ha dimenticato quando emigravamo noi?
Sì, questo retaggio viene rimosso. Eppure l’Italia ha vissuto sulle rimesse degli emigranti dopo le due guerre. L’ingratitudine e la dimenticanza sono terribili. In America chiamano quell’incendio “the fire”, l’incendio. Il testo è di Laura Sicignano. Ho accettato di interpretarlo perché mi ha colpito subito la forza evocativa delle vite delle donne di cui scrive. Ci si innamora di loro. Quasi si vorrebbe la storia non arrivasse mai a quel fatidico giorno dell’incendio. Tutto accadde perché mancava un rilevatore di fumo in quella fabbrica: non costava, ma non lo si considerava necessario là dove lavoravano donne immigrate. Quella storia sembra archeologia, si ripete invece ancora continuamente. Il negare la propria storia crea il terreno per ripetere tragedie e orrori.

Si riferisce all’Olocausto?
Prima di tutto. Ma più vicino a noi mi riferisco alla tragedia della Thyssen: non riesco a salire su una scala mobile senza pensarci, per un momento quella parola mi sopraffà. Voglio aggiungere di aver accettato il progetto “Fabbriche di storie” perché è di mediazione, vuol dire provare a metterci in contatto in maniera precisa con persone differenti e provare ad andare oltre lo stereotipo. La persona araba non è necessariamente un terrorista, un africano non è soltanto un migrante, una donna dell’est non è soltanto una badante. Sono colloqui d’amore che mi fanno pensare a Pasolini, quando in una lettera a un ragazzotto fascista invece di riempirlo di improperi cercava di spiegargli perché erano su posizioni differenti. C’è bisogno di quel colloquio, non di essere sordi e immobili. Tuttavia le sue domande mi hanno suscitato altre due considerazioni.

Quali?
La prima è che l’opera d’arte ci fa incontrare epoche, luoghi, passioni, visioni del mondo, stili di vita diversi. Ci allena all’agilità mentale, al dialogo, al trovare soluzioni non scontate a problemi difficili della contemporaneità. Non è poco. Dirigo il teatro Giacosa di Ivrea dove passo molto tempo e ancora oggi, a più di 50 anni dalla scomparsa di Adriano Olivetti, si sentono i benefici di quella cultura aperta alla ricerca, alle arti, a culture e persone diverse. Il secondo pensiero: pur conservando una precisione scientifica molto alta (indispensabile) questi progetti riescono però a trasformare in un incontro, come dicevo, “amoroso” il rapporto con l’opera d’arte tramite la lettura che ne fa il mediatore. Il nostro patrimonio culturale diventa più vicino a noi e viene percepito come una ricchezza reale di ciascuno. Se possediamo l’arte non siamo poveri.