Malapolvere

FONDAZIONE DEL TEATRO STABILE DI TORINO
ASSOCIAZIONE CULTURALE MUSE

MALAPOLVERE
Veleni e antidoti per l’invisibile 

un progetto di Laura Curino, Lucio Diana, Alessandro Bigatti, Elisa Zanino
con Laura Curino
testo originale di Laura Curino
scenografia e video Lucio Diana
luci Alessandro Bigatti
musiche originali di Roberto Negro
ricerche Luca Scarlini
assistente alla drammaturgia Beatrice Marzorati
riprese video e montaggio Eleonora Diana
abiti di scena Agostino Porchietto
segreteria di produzione Elisa Zanino
tecnici di compagnia Massimiliano Gulinelli e Marcello Prandina
Fondazione del Teatro Stabile di Torino / Associazione Culturale Muse

Il titolo e lo spettacolo sono stati ispirati dalla lettura di Mala polvere di Silvana Mossano (Ed. Sonda, 2010)

Si ringrazia l’Associazione Familiari Vittime Amianto di Casale.

 

L’avvelenamento da amianto: una tragedia fattasi simbolo di uno dei tanti mali a cui ci si espone senza saperlo. Casale Monferrato è la città simbolo di una strage silenziosa, ma è anche una sentinella che può mettere all’erta tutti noi. Lo spettacolo è un canto per quegli uomini e quelle donne che si sono immolate sull’altare di una tragedia del lavoro in nome del benessere delle proprie famiglie, del riscatto sociale dalla povertà, della forza necessaria per uscire dall’indigenza. Un sacrificio importante che potrebbe essere la fine di una storia terribile, e invece deve trasformarsi nel capitolo iniziale di una storia virtuosa. “Quella che voglio raccontare – spiega Laura Curino – non è solo la storia delle città dell’Eternit. È la storia tra queste due opposte energie: malefica e salvifica. E quella malefica, il vampiro che ci succhia la vita, non ha un solo volto.”

Silvana Mossano ha scritto Mala polvere annotando trent’anni di storie dolorose, di un dolore che è inarrestabile come la polvere sottile di amianto.

“Chi non conosce la verità è stolto, ma chi, conoscendola, la chiama menzogna, è un delinquente”.
Bertolt Brecht

 

Premio ANMIL 2012

Debutto: Torino, Teatro Stabile di Torino – Teatro Gobetti, 31 gennaio 2012.

 

 

NOTE D’AUTRICE:

Casale Monferrato è una bella cittadina tra le colline e il Po, ricca di storia, d’arte e di operosità.
Città di colori, il rosso dei mattoni della Castello, il rosa del cotto barocco, l’oro della Sinagoga, dei campi di grano e dei biscotti, le geometrie bianche e rosse del Duomo, il bronzo delle statue e dei metalli, il verde delle colline, l’azzurro del cielo e, sì, il bianco della nebbia e della neve.
Un giorno, a coprire tutto arrivò il grigio, la cipria impalpabile della malapolvere dell’Eternit, il polverino sottilissimo che si insinua dovunque trasportato dal vento, dai mezzi, dalle persone.
Casale è oggi città avvelenata, città d’amianto, città di dolore, di morte e di paura.
Ma anche città di risveglio, città di coscienza, città di vita.
Qui, tra le colline e il Po, si dipana nell’arco di più di cento anni, una delle storie simbolo della nostra contemporaneità; veleni in cambio di prosperità economica, fatiche e disagi al limite dell’umano in cambio di salari decorosi, fino all’assurdo scambio di malattia e morte in cambio di “benessere”.
E parallelo l’altro scambio infernale: bugie o silenzio invece di verità, arroganza invece di etica, rischi mortali invece di ricerca, profitti invece di sicurezza.
Il processo Eternit, che si sta svolgendo a Torino, è la maggior causa che si sia mai celebrata per un disastro ambientale provocato da un luogo produttivo, non solo limitatamente all’amianto.
Ed è attorno a questo processo, nelle persone che lo hanno voluto, nella dedizione delle famiglie, nella volontà di una intera città, che si scatena con forza l’antidoto all’indifferenza, alla menzogna e – speriamo un giorno – anche alla malattia.
Quella che voglio raccontare non è solo la storia delle città dell’Eternit.
È la storia tra queste due opposte energie: malefica e salvifica.
E quella malefica, il vampiro che ci succhia la vita, non ha un solo volto.
Di Eternit, quel formidabile materiale da costruzione, così robusto, così eterno (che atroce ironia nel nome) ce n’è un po’ dappertutto, e la sua polvere si è posata su chi ha lavorato in quelle fabbriche e su chi faceva il panettiere, il commesso o il carrozziere, l’industriale, l’impiegata al catasto o la maestra, sui ricchi e sui poveri, sui nonni e sui bambini, sui conservatori e sui progressisti.
Ancora oggi c’è un’infinità di tubi, tetti, strade, solai e cantine, che spolverano amianto in giro.
Sappiamo però che quando non è amianto, altri veleni subdoli ed invisibili ci strisciano accanto.
Io voglio raccontare del loro impercettibile frusciarci addosso come brezza gentile, della seduzione di cui
si vestono, le buone qualità che sfoggiano, i bei colori che talvolta si portano addosso. Far risplendere le pagliuzze d’oro che li fanno scintillare come acque limpide e tranquille, dispiegare i mantelli invisibili che li nascondono, mostrare il luccicante universo che promettono, riascoltare le voci morbide con cui sussurrano.
Vorrei mostrare come sia facile e umano cadere fra le loro braccia, e attraverso quali malìe il mostro ci tiene avvinti anche quando ormai abbiamo riconosciuto la stretta fatale.
Vorrei raccontare l’insano amore che ci fa chiudere gli occhi e non vedere, i bisogni che ci tengono legati a queste feroci amanti, moderne Circi o Sirene.
Raccontare di ìmpari duelli all’arma bianca, i terribili fendenti, i colpi a segno, ignorati, rimossi, mai puniti.
Non tacere dei medievali rimedi di fiumi di latte miracolosi, di fatture e di incantamenti.
Fino al gorgo scuro della discoperta, della rivelazione e della disperazione che segue quell’incanto.
Ho nostalgia di quando si sapeva cantare. Il perché il canto è il rito dimenticato del nostro presente.
Quando vediamo che questa guerra subdola, mai dichiarata, per quanto denunciata, continua a mietere vittime, ci ritroviamo muti.
Le parole sembrano inadeguate.
Il mostro che si è portato via il respiro dei caduti, prova a togliere fiato anche ai sopravvissuti e li lascia silenziosi, senza sapere che fare, che dire.
Così a volte si sentono sui sagrati, ai funerali, scaturire applausi chiassosi, indelicati, che si sa che sono sbagliati, ma non si sa che altro fare, se non usare il gesto di un altro rito, quello della festa, per santificare questo, quello del dolore.
Si prende a prestito dallo spettacolo quel battere le mani, perché non si sa dove trovare un gesto, uno solo, da fare tutti insieme, per sentirsi tutti, vivi e morti, vicini.
E così ognuno è solo. Nella consapevolezza, oppure nell’indifferenza, fa lo stesso.
Avviene però che a volte dal silenzio nasca una voce, poi un’altra, e poi un’altra ancora.
Voci capaci di sostenersi, di comprendersi, di contenere la paura, di piegarla ai propri intenti. Miracolose voci che sanno concertare.
Ci sono persone che raccolgono l’eredità di chi non c’è più e la mettono al servizio di chi non c’è ancora e raccontano altre storie.
Storie meravigliose e appassionate, storie generose, storie arrabbiate, storie di progetti, di futuro.
Storie che attraversano Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna, Svizzera, Stati Uniti, Brasile, Messico, storie che sono rimedi potenti contro le paure, le inedie, le solitudini, la confusione e il turbamento dei sopravvissuti.
Storie di gente che cerca nella giustizia, nella scienza, e anche nella gioia, gli antidoti alle male polveri delle coscienze.
Persone che amano chiamare le cose con il loro nome rendono a tutti – me compresa – meno difficile l’aprire gli occhi e smetterla di imitare gli struzzi, mettendo la testa sotto la malapolvere.
Anche a loro è dedicato questo lavoro.

Laura Curino